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venerdì 17 aprile 2020



LA CESTA SOLIDALE PER L'ANIMA
di Tìndara Rasi


Nell'impasto stilistico di una vicenda letteraria, si arriva ad un punto, detto "Spannung" che è quello di maggior tensione, quello che permette all'azione di risolversi o di precipitare con un colpo di scena risolutivo, quello che origina la conclusione dopo alterne peripezie.
Qualcosa del genere accade al viandante, al girovago. Cammina, cammina e ad un certo punto si dispiega, inaspettata di fronte a sé, la Serendipity, l'El Dorado, la Timbuktù, il paesaggio/passaggio insperato. Per raggiungere quel "luogo", non si traccia quasi mai un percorso lineare e prestabilito, ma se ne percorre uno ondivago. Si "trottola" per calembour di una spirale non-sense, degna del pancione "patafisico" di Alfred Jarry. Non si appalta ad altri il proprio destino, dunque, ma se ne diventa protagonisti. Tra errori e mistificazioni, tra giravolte e ripensamenti, alla meta si giunge, marcendo le piante dei piedi con calloni e ferite.
Cosa modifica però il risultato di un viaggio mentale o reale? Il background personale, certo, lo sfondo retroculturale ed esperienziale. La scelta di partire, di non fermarsi al solito miraggio. La capacità di volgere verso un determinato bivio tutto ciò che ci si accade, il momento che si vive, il luogo sul quale si transita. Ma anche una certa dose di clinamen epicureo, di asimmetria barionica da Big bang primordiale. Una foglia cade, e per attrazione terreste arriva a terra; eppure è un colpo di vento che può determinare la sua discesa, il punto di atterraggio, la velocità, la deviazione, la collisione o lo sfioramento con altre foglie. C'è una "soggettività anonima", disse il filosofo Husserl, che opera nascostamente in qualsiasi esperienza. Lo "Spannung" della vita...
Siamo in epoca di distanziamento sociale. Ciò ha appaltato le nostre coscienze. Ci sono SI, e SI. C'è il SI impersonale che tanto amò Edoardo Sanguineti nel libro "Il giuoco dell'oca" (1967) tra rimandi di pagine e pagine come dentro un moderno libro-games; quel SI che vale per tutti, indistintamente, nella grammatica italiana. C'è poi il SI passivante, quello che dal transitivo attivo, volge al passivo: lo si potrebbe fare.... C'è il SI riflessivo (ripiegato su noi stessi, sulla nostra persona, tocca il ...); ma anche il SI riflessivo apparente (riferito a parti della propria persona... toccarsi le mani, i piedi...), e il riflessivo reciproco (Tizio e Caio si abbracciano). E infine c'è il SI particella pronominale, quello che sostituisce il nome nell'incamminarsi. Usare quei SI è un atto linguistico ma anche di coscienza. Anche perché cosa viene detto (senso denotativo), è diverso dal come viene detto (senso connotativo). I SI possono essere enunciati constativi, cioè che necessitano di capire la falsità o la verità del loro senso (come un soggettivistico "siate" al congiuntivo ... e chissà se poi davvero sarete...); ma anche enunciati performativi che necessariamente si attueranno, perché già regolati da norme sociali o da usanze (come un "siete" indicativo). In questa situazione di emergenza, noi siamo "parentesigraffati" tra i confini dell'enunciato constativo. Ma è il performativo che ci piace, quello che decreta l'atto: io ti sposo, io mi muovo. Non qualcosa che farò dopo, forse, da esperire; ma che faccio, sicuro, adesso. Vorremmo che il senso denotativo e quello connotativo, coincidessero.
Eppure il clinamen di Epicuro, con un colpo d'atomo in collisione con un altro, ci ha spazzato verso altri SI. Quelli che non esistono grammaticalmente, ma sono i SI di postazione. Fermi. Una postazione di sentinelle in attesa, come nel "Deserto dei Tartari" di Dino Buzzati. Non ci siamo abituati. Per questo ci pesa il distanziamento sociale imposto. Ci sentiamo kikikomori, assoggettati alle videoconferenze: i contatti non ci mancano, ma ci manca la gioia della grandezza fisica vettoriale detta "forza", che determina un moto dinamico spontaneo. Le neuroscienze ci tranquillizzano, dicendo che esiste il default mode network (DMN): la nostra mente lavora allo stesso modo sia in attività, risolvendo un complesso calcolo matematico, che a riposo. Ma non ci crediamo più di tanto. L'inattività uccide l'economia e anche la stabilità mentale.
Tuttavia, un tempo questo SI di postazione era più accettato e considerato, perché intenzionale, "previsto" da un campo che oggi non esiste più, quello contemplativo della mistica religiosa. Resiste, in area orientale; si è rarefatto in quello europeo. I romiti o eremiti, non hanno voce, non rientrano nelle nostre categorie di pensiero e di vita. Clarisse, carmelitane, erano contemplative d'eccellenza. Guardo il "Canestro di frutta" di Caravaggio e ne osservo la staticità, la fissità tra la la cornice del quadro dentro un monitor di computer. Immortalato, immobilizzato per l'eternità, quel canestro. Adesso il paniere, il cesto della solidarietà, da Napoli si è diffuso in tutta Italia. Esisteva il "caffè sospeso", la pratica di lasciare pagato un caffè al prossimo che entrava nel bar, senza soldi; ora c'è il "cesto sospeso", lasciato penzolare dai balconi (ma senza intralciare il manto stradale), dove "chi ha metta, chi non ha prenda", come diceva San Giuseppe Moscati. Lo si riempie di ciò che ci avanza, un po' di cibo non deperibile, possibilmente, e lo si lascia lì a beneficio dei passanti. Sono state create mappe delle postazioni, numerate e controllate, anche se non è esente lo sciupìo di chi ne approfitta. Un cesto statico e dinamico allo stesso tempo, quello dei tempi moderni. Ci sono cesti e cesti, come ci sono SI e SI. In Amos e in Geremia, due profeti dell'Antico Testamento, i canestri pieni di fichi o frutta matura indicavano sventure. E anche Giuseppe predisse sventure dopo tre giorni, interpretando il sogno dei tre canestri fatto dal coppiere e dal panettiere del faraone d'Egitto. I cesti vanno dunque oltre la decifrazione univoca di un fenomeno, di un uso comune. Non ci possiamo trovare cumarina con l'odore dolce dell'erbetta appena tagliata, non resistono gli odori e i sogni così; ma ci troviamo concretezza "materiale" e "intestinale" nuova. Niente sogni, niente brioche, ci serve il pane, cara regina Maria Antonietta. Perché persino l'altro paniere, il paniere Istat dei beni di consumo, rileva un'impennata dell'inflazione non certo di buon auspicio. Con cento euro ci si compra poco, manco fossimo al mercato nero nei tempi della guerra. È il trickster, l'imbroglione dei nostri tempi, quel santo denaro che ci presenta tutto come immutato e che invece di immutato ha ben poco, perché ci gabba con tiri mancini lentissimi e incontrollati: ce ne accorgeremo solo alla fine, guardando il grafico dei prezzi di beni di prima necessità. Fenomenologia del mercato azionario.
Nel canone pāli buddista, dove i canestri sono tre, canestro della disciplina, canestro della dottrina e canestro della cosmologia, ci rientra invece anche la contemplazione, la staticità. Nel canone Zen, poi, "stare seduti" è l'apoteosi dell'ideale religioso di ogni adepto. Nel nostro canestro interiore, però, questo aspetto deficita proprio. Mosè fu lasciato scivolare lungo in fiume Nilo in un canestro. San Paolo si liberò dalla sua prigionia scappando dalla finestra del carcere di Damasco, nascosto dentro una cesta. La vita rinacque da quei cesti. Ebbe "possibilità". Oggi il cibo costa, e dalle ceste sospese, come moderne "preghiere sospese" dentro le cattedrali dell'anima, si può trovare giovamento materico che fa tanto "costume sociale" per i giornalisti del mondo intero. San Benedetto riceveva nella sua spelonca un tozzo di pane calato dall'alto con una corda; si svegliava al suono di un campanellino e lo afferrava. Ci mise lo zampino il diavolo, rompendo il campanello, ma il cibo gli arrivava comunque come una manna, tramite carrucole manuali e corde sospese a mezza grotta. Perché il genere umano ha bisogno di ingozzamento sostanziale, non ce la farebbe mai a misticizzare questi tempi di grama delibando la propria "carne spirituale". San Lorenzo, da buon diacono, fece arrostire se stesso ("Questo lato è cotto, giratemi", disse bloccato sulla graticola); lo fece nel martirio testimoniale di fronte alla richiesta di soldi altrui, soldi destinati alla Caritas dell'epoca. Ma la finezza claustrale delle monache o la sublimazione di se stessi per oblazione, non illècebra la forma mentis moderna. Nello Spannung di questo periodo, la svolta che si agogna è poter uscire, ritornare alla vita di sempre. Non la metànoia, il cambiamento di costumi che diventi radicalità di metamorfosi. Il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci nelle ceste, per noi vuol dire tornare come prima, più ricchi di prima, ma non certo interiormente. Non sappiamo che farcene di un tempo di reclusione. Non sappiamo gestire la noia, l'inattività. Non rischiamo di crescere, ma di decrescere. Perchè non siamo preparati a sederci, nella tensione di un'attesa che è solo mentale. Non sappiamo dire un SI che da passivante riflessivo, diventi particella pronominale. Il "SI" maiuscolo di Maria all'apparizione dell'Angelo. Un SI in cui donò il di se stessa. Ci mangia il tickster del defoult "animarum", falliamo la rinascita nicodemica che scende dall'alto con le ceste amniotiche di queste notti intramate di Dio. Nel nostro bullet journal, non c'è la pagina per l'attenzione, per l'accrescimento dell'anima, ma solo quella pragmatica per l'arricchimento del vitalizio liquido. A tal Andrea Gallerani, che da Siena finì esiliato nelle lande desolate della Maremma grossetana, lo Spannung, il clinamen, lo portò a deviare, a diventare il fondatore della "Casa della Misericordia", per prendersi cura, medicalmente parlando, degli appestati dell'epoca. Un cacciatore come Bernardo Maria Silvestrelli, visitando i Passionisti di Sant'Eutizio a Viterbo, converse la propria vicenda esistenziale verso Dio. Giacomo Papocchi da Montieri, un ragazzino che nel 1200 rubò per fame, abbandonato dai suoi stessi amici di combriccola, finito per penitenza con una mano e un piede mozzato dalle autorità, decise di farsi "murato".
"Il recluso non era un isolato, uno che si tagliava fuori dalla Comunità e che da questa era abbandonato al suo destino solitario; egli appariva invece come la sentinella scelta da Dio a salvaguardia di tutto l'accampamento, meritevole perciò di essere da tutti sostenuta nel suo posto avanzato. Ecco perchè la sua decisione eroica era salutata con gioia, come un fatto di interesse comune, e la sua entrata era una cerimonia pubblica (ecclesiale), quasi una festa di popolo. [...] il prigioniero di Cristo, mentre si estenuava in digiuni e preghiere di tutti, poteva contare sull'apporto di tutta la comunità dei fedeli." ("Il beato Giacomo da Montieri", di D. Rino Biondi, Grafiche UTA Volterra, pg. 67-68)
Giacomo Papocchi aveva giorni, ore di silenzio, durante i quali gli faceva compagnia il suono della campana. Nel rumore della città, non la sentiamo più, è un rumore tra tanti. Non era sempre solo, ovviamente, ma era spesso "disturbato" da gente che passava vicino alla sua cella e gli chiedeva preghiere, intuizioni, non avendo tempo per farlo da sé. Sognava l'ostia e Gesù scese da lui nella cella murata e gliela portò direttamente con le sue stesse mani divine. Quotidianamente c'era anche chi gli porgeva il panierino di viveri e di bevande. Spirito e corpo erano salvaguardati entrambi. Questo fu il raro, meraviglioso privilegio accordato ad una sentinella che, per accettazione ecclesiastica e per volontà personale, aveva deciso di farsi murare viva, santificando la sua vita. Era il suo SI, la sua decisione. Nessuno glielo aveva imposto. Era un suo desiderio; e la sua scelta fu l'onore di un intero paese che si poté vantare di avere un "murato" approvato dalla chiesa in seno alla propria comunità. La clausura di un uomo che non andò in convento a trovare letto e cibi e compagnia, ma preferì seppellirsi vivo, dando uno scopo alla sua esistenza come liberazione dell'anima da quel corpo mutilato, offerta di sè a Dio e intercessione per tutti i suoi compaesani: non si dimentica un uomo che decide quel tipo di SI. Non per la singolarità straziante e pazza della sua vicenda umana, ma per la donazione spontanea che lo piallò ab eternam tra quei legni ecclesiali. Cosa può apportare una vita di clausura? A se stessi, l'elevazione dei propri pensieri e della propria anima, come anche tutte le pratiche ascetiche orientali apportano. Agli altri, l'esempio e il monito che non esiste inattività, solo direzionalità. Si può scegliere cosa farne del tanto tempo libero a propria disposizione. Si può scegliere di annaspare nelle sabbie mobili del disfattismo e del malumore senza speranza, ibernando la vita. Oppure, si può osare elevarsi verso altezze metacognitive, come novelle gabbiane Fortunate finite provvidamente tra le zampe del gatto Zorba e nella penna di Luis Sepùlveda. Un uovo da mangiare, o un essere da vegliare? Restare a terra, o volare? Out out kierkegardiani. Effetti da voli pindarici rischiosi ma vocazionali. Adesso, nell'elenco dell'Olimpo letterario, il gatto e la gabbianella hanno entrambi l'eternità assicurata grazie all'inerzia sublime del cileno Sepùlveda seduto alla scrivania mentre li descrive, e ai milioni di lettori che ancora li seguono dalle loro comode "poltrone". Perché persino per gustare questa novella, il negotium ha bisogno di trasfondersi in sacro, mistico otium. E se un feedback ci sarà dato, potremmo sempre dire: "Ho avuto il tempo pieno di leggerli, Zorba e Fortunata". Non per imposizione, non per noia, ma per un plugin aggiuntivo che mi ha implementato il software base della vita ordinaria. La delizia "non necessaria" che serve soltanto a stuzzichellare il recettore del bottone gustativo. Il lampo di divino che è insito in noi e che vorrebbe soltanto essere scoperto. Tra queste insperate mura "papocchiane" regalate dagli eventi, tra questa clausura "fortunata" che non ci ammala ma ci lascia vivi in casa nostra, abbiamo tempo per scovare finalmente questo inaspettato Easter egg calato giù con la cesta dal generoso e a-temporale balcone "soprastante".

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