sabato 1 dicembre 2018


LA FUTILE VITA DEL CONCIME 
di Tìndara Rasi

Fermo. Non aveva parole. Si sentiva imbecille e meschino, per non aver capito, in tutti quegli anni, chi si trovava davvero di fronte, per non aver capito, ma anche per non aver saputo rispettare a sufficienza chi era più alto in grado di lui. 
Lei lo aveva graziato, dopo la denuncia per violenza, ma era una grazia inutile, lui era e restava scemo. La sua indecenza spirituale, verbale, corporale, il suo pesante essere, insulso e inietto, biascicava parole ma non aveva più che dire. Continuava a consumarsi nella sua incapacità, imperizia e malagrazia conclamata. Avevano aperto un conto reciproco, quando lei si era sentita offesa, e nelle battaglie aspre che ne erano seguite, aveva vinto lei, non lui. Si era rivelato incompetente e inabile. Poteva continuare a blaterare frasi vuote, gridi isterici di chi si sente perduto, calunnie a vanvera di chi non sa più cosa dire. Nessuno lo ascoltava più. Non aveva capito in tempo, e aveva perso.  Lei era una maestra. Una donna lo è sempre, soprattutto di fronte alle umiliazioni stupide e pubbliche alle quali spesso la sottopongono uomini inietti come lui. Nessun giudice lo aveva condannato, ma condannato lo era stato ugualmente e da giudici ben più spietati di quelli in toga: la sua comunità sociale. Paluso e merito. Inutile tentare ancora. Poteva solo rifarle il verso, ma l'originale era lei, la vincente era lei. Vince chi sa mantenere il segreto sulla propria identità, non chi sbandiera meriti e gradi massonici dall'inizio alla fine; vince chi non si svela all'inizio, ma velo dopo velo, puntata dopo puntata, pagina dopo pagina, parola dopo parola, in modo accorto e misterioso.  Gli alberi si piantano, non si sradicano. Lei aveva primeggiato spudoratamente, apertamente, e quasi senza fatica. Si sentiva come un morto che si trascina ancora qualche metro sprecando il fiato ultimo che gli rimane in gola, vergognosamente oltraggiato dalla sua integrità, dalla sua intelligenza e dalla sua evidente superiorità. 
Più chiacchierava, e più affogava nel suo stesso fango. Più blaterava, più lei scuoteva la testa e rideva.
Sostandogli un secondo di fronte, mentre camminava lieve e altera, gli lanciava uno sguardo di pena che diceva tutto senza neanche dover fare lo sforzo di profferire fonemi. Lo lapidava al suo stesso destino di violento, trovandolo al ristorante caritatevole con l'ultima donna che lo leccava di sguardi impudici, lasciandolo in pasto alle sue amanti cagnette che lo fotografavano per pubblicizzare con calendari e riviste la sua idiozia, vestite e svestite di gloria dal suo stesso beneplacito consensiente. Lui gridava stupidate inutili, drogandosi nella speranza di potersi ancora dare un tono di importanza, ma sapeva di essere diventato un angelo caduto di grazia. Lo sapeva, ed esserne cosciente lo devastava ancora di più.
Era in questa orrenda scivolata di coscienza, che lei lo guardava affogare ogni giorno di più. Ed era lì, che lo avrebbero ritrovato i posteri, leggendo il suo nome.

[Tratto da "Che la terra sia lieve"]

Copyright © Tindara Rasi



"Si può definire la violenza psicologica come una strategia che mira, nei casi più gravi, a uccidere, distruggere, escludere, annientare e, addirittura, portare al suicidio una persona, senza avere alcun contatto fisico con lei. La provocazione continua, l'offesa, la disistima, la derisione, la svalutazione, la coercizione, il ricatto, la minaccia, il silenzio, la privazione della libertà, la menzogna, il tradimento della fiducia riposta, l'isolamento sono alcune forme in cui si manifesta la violenza psicologica."

Tratto da: Il mobbing e le violenze psicologiche
Fenomenologia, prevenzione, intervento


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