sabato 26 dicembre 2020

DU’ PAROLE, SAN GIUSEPPE

sulla scia della lettera apostolica Patris Corde

di Tìndara Rasi



L’uomo che una mattina d’incerta primavera, in un paese del Medio Oriente vicino al confine siriaco, spingeva un asino carico di legname e di attrezzi su per una strada locale, non aveva nulla in grado di attirare l’attenzione.”1
Ma fu l’uomo della svolta. L’anonimo della rivoluzione.
Di quale rivoluzione?
Di quella sociale e familiare.
Di quella universale, ecumenica, mondiale.
Per questo, due sono le parole che mi colpiscono, in relazione alla figura di San Giuseppe.
La prima è “giusto”.
I giusti sono coloro i quali vanno controcorrente, scardinano le abitudini, le scelte ideologiche e politiche, la vita sociale. Dopo un momento di iniziale titubanza, Giuseppe prese come sposa una ragazza incinta. Non la fece lapidare, non ripudiò la sua fidanzata: la sposò.
Non era quello, l’uso comune del tempo.
Per comprendere il comportamento iniziale di Giuseppe nei confronti di Maria, dobbiamo entrare, almeno sommariamente, nel mondo delle usanze matrimoniali dell’antico Israele. Il matrimonio comprendeva due fasi ben definite. La prima consisteva nel fidanzamento ufficiale tra il giovane e la ragazza che solitamente aveva 12 o 13 anni. La ratifica di questo primo atto comportava una nuova situazione per la donna: pur continuando a vivere a casa sua all’incirca per un altro anno, essa era già ‘moglie’ del suo futuro sposo e per questo ogni infedeltà era considerata già adulterio. La seconda fase invece comprendeva la solenne celebrazione nuziale col trasferimento festoso alla casa dello sposo, secondo quella vivace sceneggiatura di luci, canti, danze, banchetti evocata anche da Gesù nella sua parabola delle vergini stolte e sagge (Matteo 25, 1-13). Il racconto che abbiamo prima letto si colloca appunto nella prima fase, quella del fidanzamento: «prima che andassero a vivere insieme», Maria «si trovò incinta».”2
Giuseppe superò i pregiudizi: rivoluzionò un modo di pensare, diede un balzo in avanti alla storia umana. Prima si faceva così, si ripudiava la fidanzata rimasta incinta da non si sa chi, la si lasciava addirittura lapidare a morte, a colpi di pietre sul cranio. Dopo, non tutti, ma certamente alcuni, si rifecero alla sensibilità di Giuseppe, alla sua nuova logica sociale. Si può abbandonare al proprio destino una ragazza incinta che lo è per azione dello Spirito Santo? Se lo chiese, certamente, Giuseppe. E dopo di lui, chissà quanti iniziarono a fare il suo stesso tipo di ragionamento.
San Giuseppe era un precursore innovativo degli stili sociali della zona. Lui sognava. Era una sorta di uomo che vedeva “oltre” le realtà contingenti. I suoi sogni, le sue preveggenze, i segnali degli angeli che lo guidavano, lo portarono a scegliere in diverse occasioni, strade nuove e diverse.
Lo fece, scappando in Egitto dall’oppressione di Erode.
Ma lo fece anche simbolicamente aprendo quella nuova moda sociale.
Non era un performer, non era un influencer, non era politico; era un uomo sano, concreto, solido, quotidiano. Questi sono i giusti dei pogrom che salvano vite. Lui salvò quella di Maria, fece la scelta controcorrente che nessuno si aspettava. Chi salva una vita, salva il mondo intero...
A indirizzarlo verso quella scelta fu la sua coscienza. Un sogno è la coscienza parlante. Un angelo è il grillo parlante di Dio.
- Ascolta, Giuseppe, figlio di Davide e Acaz, di Ezechia e di Giacobbe. Egli ti chiede: vuoi tu, che hai fatto la rinuncia insieme a lei, rimanere presso di lei come l’ombra del Padre...? Acconsenti?
Giuseppe sedette di nuovo. Il profumo del fiore si spandeva verso di lui nell’oscurità. Sul suo capo scintillavano le stelle. Il silenzio regnava. Si passò le dita sul viso, come ad assicurarsi che non avesse cambiato la sua forma.
- Ci riuscirò? – sussurrò. – La amo tanto…
- Prendila in casa tua…
Le ultime parole risonarono nel silenzio. Quando si levò in piedi… strinse le mani al viso. Aveva pregato tante volte nella vita: «Rivelami, Signore, la Tua volontà, indicami quel che devo fare. Attenderò paziente il tuo comando». Aveva atteso tanti anni. Gli pareva di sapere che cosa stesse aspettando. Quello che attendeva era giunto.”3
Giuseppe era pronto a quella rivoluzione silenziosa. Era pronto al suo ruolo di “giusto” in mezzo agli ingiusti.
Maria disse:
La mia coscienza è chiara solo su un punto. Il dolore, che nessuno proibisce ad una madre. Questa è la preghiera che ho innalzato fin dal primo momento della tua esistenza su questa terra: «Signore, fa’ che in questo seme di luce che mi hai donato, mi sia resa comune anche la parte dell’ombra.»”4
Così pensa la Madre di Dio della sua stessa vicenda.
Lo stesso valse per il suo sposo Giuseppe. Uomo giusto, guidato da una coscienza giusta, che non rifiuta la tenebra, l’onta, la derisione comune, il coraggio di far valere la sua scelta nonostante tutto. “In questo seme di luce che mi hai donato, mi sia resa comune anche la parte dell’ombra”, per lui si capovolge: “In questa parte dell’ombra, accolgo la luce che mi hai donato”. Nell’ombra, nell’oscurità più fitta, lui vide la luce, vide ciò che gli altri ancora non vedevano, compì il miracolo di stravolgere la storia umana, di sovvertire le regole comuni.
Gli dice la sua sposa salvata dall’onta:
Le profondità del firmamento, o mio amato, non ci sgomentano: sgomentano chi crede solo nelle tenebre.”5
Giuseppe non parla. Nelle tenebre, riflette. Ha i suoi giusti timori.
Guardo queste pareti scrostate, e non scorgo nulla. So che di fuori, più che una casa, sembra una tana. E non sono tane per esseri umani, anzichè per le bestie, queste dimore? Per terra ci sono i resti del becchime di una gallina. L’aria entra tiepida o fresca, ora è freddo, un lume balugina a una casupola che come questa poggia su una sporgenza della roccia… Avrei voglia di affacciarmi, ma la vista dello stellato mi dà spavento. Mi fa capire quanto sia grande la nostra solitudine in mezzo a queste luci impossibili…”6
Ragiona. Agisce. Scava e scova luce. E se qualche volta crolla sotto il peso di una portata storica epocale, in questo tramestio interiore, in questo scavalco delle idee comuni, gli è a fianco Maria.
-Sta solo a te dire sì o no. Dovresti capirlo, tu che hai saputo rispondere alla voce di un sogno. È allora che si decide tutto; il resto conta come tante cose del mondo: il tragitto del tempo, le stagioni, i temporali -. La voce era decisa: - Non dovrei essere io a dirtelo. La tua non è stata rassegnazione, ma consenso. Virtù. E non ti resta che continuare come hai fatto: obbedire.
- D’accordo. Ma fino a quando?
- Non lo so. Nessuno ha mai contato le stelle di una notte. Le stelle sono come gli anni della nostra vita. Ma l’infinito, l’incomputabile, sta ancora più in là.”7
[…] - Che Dio, che è il solo che può farlo, ti illumini sempre.”8
Dio illumina lui, per salvare il Figlio e Maria.
Si dice sempre che sia Giuseppe l’uomo del silenzio, del passo indietro, dell’ombra. Per me è esattamente il contrario. San Giuseppe è l’uomo che “usa” l’ombra per fare luce.
Spesso, anche ora a distanza di secoli, nell’epoca tecnologica e scientifica, continuiamo a cercare consolazione nelle situazioni più tristi delle nostre vite comuni, dicendoci che in ogni cosa che accade dobbiamo intravedere un segno di Dio che agisce per il nostro bene. Volgi al bene, il male che ricevi. Non lasciartene intaccare. Così pensiamo, così diciamo a chi subisce un’onta, a chi sta male, a chi soffre, a chi implode.
Giuseppe, l’uomo rivoluzionario, per atto concreto fece lo stesso: usò l’ombra per proteggere, per amore. Volse al bene, il non concepibile sociale.
Sembra un paradosso, ma non lo è.
L’ombra serve a nascondere, a non far vedere, per avarizia cupiscente di beni personali e materiali.
A San Giuseppe l’ombra, l’altra parola usata in Patris Corde da me presa in considerazione, servì per proteggere la luce, l’evidenza, l’immateriale divino.
Non tenne nascosti Maria e Gesù per concupiscenza personale, per uso egoistico possessivo. Li tenne fuori dall’ombra dei riflettori, affinché fossero luce per gli occhi di pochi che potevano interpretare, in futuro, le loro vicende familiari sotto una nuova descrizione sociale. Avvolse Maria incinta sotto il suo mantello, proteggendola dai mormorii, dagli sguardi indiscreti, dai pettegolezzi e dagli scandali. Il suo silenzio non fu il silenzio dello sciocco, del cretinotto. Fu un silenzio di stile. Di cavalierato. Di garbo. Di bon ton. Mi domando: intorno a lui ci fu chi capì, chi approvò non per una soggezione da rabboniti compaesani che evitarono di parlare male di lui e di sua moglie, perché potevano scatenare le sue maschie ire? Ci fu chi approvò il suo fare? Qualcuno capì cosa fece e perché lo fece?
Già. Appunto.
Perchè lo fece?
Non lo fece per buonismo, per semplicità d’animo, per basso livello culturale. Lui capì. Capì che era in atto una rivoluzione, per mano sua. Una di quelle che segnano le epoche culturali, che demarcano i passaggi storici. Gli uomini non sono dei cavalieri e con le donne hanno poca pietà, nessun rispetto persino in epoca moderna, figurarsi allora.
Ma Giuseppe poteva salvare un bambino, poteva e doveva salvare una donna, poteva mostrare all’umanità una nuova rotta da percorrere, voluta da Dio. La strada della compassione, della tolleranza, del rispetto, della finezza culturale. Lo fece non per salvare la sua reputazione o quella dei suoi cari, non solo per quello. Lo fece per un fine più alto e nobile, per consegnare al mondo, cioè alla società, la rivoluzione della salvezza, la lenta modifica di una mentalità patriarcale e animalesca. Nell’ombra della discrezione, volse le sorti filosofiche, etiche, morali di un popolo e dell’intera umanità verso una concezione più umana e rispettosa della vita, una che iniziò a rispettare di più le donne e la fedeltà della vita coniugale vista con altri parametri, non con quelli dell’onore atavico del possesso verginale, altrimenti morte sia.
Perchè usò proprio l’ombra? Per diventare uomo “giusto”? Per vanagloria personale? Volgere il male al bene è così facile, così educatamente sociale, così adatto all’establishment di un certo ceto, al politically correct di una certa mentalità etica. Ma Giuseppe non era costretto da nessuna forma mentis. Non lo fece per sport. Non lo fece per moda.
La usò per quel motivo che tutti oggi conosciamo e che allora era soltanto inizio, tenebra e notte.
La usò perché tutti sapessero, dopo. Non della sua vicenda familiare, non di sua moglie incinta prima del tempo. Ma di cosa guardare oltre quel quadretto nella grotta, oltre quel soggetto velato dal cuneo di chiaroscuro. Usò l’ombra per convogliare tutta la luce su quel passaggio mentale, su quel nuovo obiettivo storico-antropologico-culturale. Lo usò nascondendo se stesso e la sua famiglia terrena, perché fosse centrale l’argomento della tesi, perché gli occhi e lo sguardo si concentrassero su quel punto focale di un’altra trinità. Quella non visibile, quella difficile da scandagliare, quella oltre la vista umana. La Trinità, l’altra famiglia, l’altro Verbo celeste nel Verbo terreno. Usò l’ombra come un mantello per proteggere Maria, per proteggere Gesù, per proteggere l’umanità terrena, così soggetta alle mode del mondo e alla loquacità pettegola, dando spazio all’evento ultraterreno unico e ultimo, affinché si compisse ciò che era da sempre scritto: “Sii adorato tra gli uomini / forma trimunere, Dio”9.
Tìndara Rasi
1Come il tragitto di una stella. Giuseppe di Nazareth: sogno, amore e solitudine”, Ferruccio Ulivi, Ed. San Paolo 2005, pg. 13
2I Vangeli di Natale. Una visita guidata attraverso i racconti dell’infanzia di Gesù secondo Matteo e Luca”, a cura di Gianfranco Ravasi, Ed. San Paolo, 1992, pg. 68-69
3 “L’ombra del padre – Il romanzo di Giuseppe”, Jan Dobraczynski, cap. 17
4Come il tragitto di una stella. Giuseppe di Nazareth: sogno, amore e solitudine”, Ferruccio Ulivi, Ed. San Paolo 2005, pg. 174-175
5Come il tragitto di una stella. Giuseppe di Nazareth: sogno, amore e solitudine”, Ferruccio Ulivi, Ed. San Paolo 2005, pg. 133
6 “Come il tragitto di una stella. Giuseppe di Nazareth: sogno, amore e solitudine”, Ferruccio Ulivi, Ed. San Paolo 2005, pg. 138
7 “Come il tragitto di una stella. Giuseppe di Nazareth: sogno, amore e solitudine”, Ferruccio Ulivi, Ed. San Paolo 2005, pg. 136
8 “Come il tragitto di una stella. Giuseppe di Nazareth: sogno, amore e solitudine”, Ferruccio Ulivi, Ed. San Paolo 2005, pg. 135
9 “Il naufragio del Deutschland”, di Gerard M. Hopkins

venerdì 17 aprile 2020



LA CESTA SOLIDALE PER L'ANIMA
di Tìndara Rasi


Nell'impasto stilistico di una vicenda letteraria, si arriva ad un punto, detto "Spannung" che è quello di maggior tensione, quello che permette all'azione di risolversi o di precipitare con un colpo di scena risolutivo, quello che origina la conclusione dopo alterne peripezie.
Qualcosa del genere accade al viandante, al girovago. Cammina, cammina e ad un certo punto si dispiega, inaspettata di fronte a sé, la Serendipity, l'El Dorado, la Timbuktù, il paesaggio/passaggio insperato. Per raggiungere quel "luogo", non si traccia quasi mai un percorso lineare e prestabilito, ma se ne percorre uno ondivago. Si "trottola" per calembour di una spirale non-sense, degna del pancione "patafisico" di Alfred Jarry. Non si appalta ad altri il proprio destino, dunque, ma se ne diventa protagonisti. Tra errori e mistificazioni, tra giravolte e ripensamenti, alla meta si giunge, marcendo le piante dei piedi con calloni e ferite.
Cosa modifica però il risultato di un viaggio mentale o reale? Il background personale, certo, lo sfondo retroculturale ed esperienziale. La scelta di partire, di non fermarsi al solito miraggio. La capacità di volgere verso un determinato bivio tutto ciò che ci si accade, il momento che si vive, il luogo sul quale si transita. Ma anche una certa dose di clinamen epicureo, di asimmetria barionica da Big bang primordiale. Una foglia cade, e per attrazione terreste arriva a terra; eppure è un colpo di vento che può determinare la sua discesa, il punto di atterraggio, la velocità, la deviazione, la collisione o lo sfioramento con altre foglie. C'è una "soggettività anonima", disse il filosofo Husserl, che opera nascostamente in qualsiasi esperienza. Lo "Spannung" della vita...
Siamo in epoca di distanziamento sociale. Ciò ha appaltato le nostre coscienze. Ci sono SI, e SI. C'è il SI impersonale che tanto amò Edoardo Sanguineti nel libro "Il giuoco dell'oca" (1967) tra rimandi di pagine e pagine come dentro un moderno libro-games; quel SI che vale per tutti, indistintamente, nella grammatica italiana. C'è poi il SI passivante, quello che dal transitivo attivo, volge al passivo: lo si potrebbe fare.... C'è il SI riflessivo (ripiegato su noi stessi, sulla nostra persona, tocca il ...); ma anche il SI riflessivo apparente (riferito a parti della propria persona... toccarsi le mani, i piedi...), e il riflessivo reciproco (Tizio e Caio si abbracciano). E infine c'è il SI particella pronominale, quello che sostituisce il nome nell'incamminarsi. Usare quei SI è un atto linguistico ma anche di coscienza. Anche perché cosa viene detto (senso denotativo), è diverso dal come viene detto (senso connotativo). I SI possono essere enunciati constativi, cioè che necessitano di capire la falsità o la verità del loro senso (come un soggettivistico "siate" al congiuntivo ... e chissà se poi davvero sarete...); ma anche enunciati performativi che necessariamente si attueranno, perché già regolati da norme sociali o da usanze (come un "siete" indicativo). In questa situazione di emergenza, noi siamo "parentesigraffati" tra i confini dell'enunciato constativo. Ma è il performativo che ci piace, quello che decreta l'atto: io ti sposo, io mi muovo. Non qualcosa che farò dopo, forse, da esperire; ma che faccio, sicuro, adesso. Vorremmo che il senso denotativo e quello connotativo, coincidessero.
Eppure il clinamen di Epicuro, con un colpo d'atomo in collisione con un altro, ci ha spazzato verso altri SI. Quelli che non esistono grammaticalmente, ma sono i SI di postazione. Fermi. Una postazione di sentinelle in attesa, come nel "Deserto dei Tartari" di Dino Buzzati. Non ci siamo abituati. Per questo ci pesa il distanziamento sociale imposto. Ci sentiamo kikikomori, assoggettati alle videoconferenze: i contatti non ci mancano, ma ci manca la gioia della grandezza fisica vettoriale detta "forza", che determina un moto dinamico spontaneo. Le neuroscienze ci tranquillizzano, dicendo che esiste il default mode network (DMN): la nostra mente lavora allo stesso modo sia in attività, risolvendo un complesso calcolo matematico, che a riposo. Ma non ci crediamo più di tanto. L'inattività uccide l'economia e anche la stabilità mentale.
Tuttavia, un tempo questo SI di postazione era più accettato e considerato, perché intenzionale, "previsto" da un campo che oggi non esiste più, quello contemplativo della mistica religiosa. Resiste, in area orientale; si è rarefatto in quello europeo. I romiti o eremiti, non hanno voce, non rientrano nelle nostre categorie di pensiero e di vita. Clarisse, carmelitane, erano contemplative d'eccellenza. Guardo il "Canestro di frutta" di Caravaggio e ne osservo la staticità, la fissità tra la la cornice del quadro dentro un monitor di computer. Immortalato, immobilizzato per l'eternità, quel canestro. Adesso il paniere, il cesto della solidarietà, da Napoli si è diffuso in tutta Italia. Esisteva il "caffè sospeso", la pratica di lasciare pagato un caffè al prossimo che entrava nel bar, senza soldi; ora c'è il "cesto sospeso", lasciato penzolare dai balconi (ma senza intralciare il manto stradale), dove "chi ha metta, chi non ha prenda", come diceva San Giuseppe Moscati. Lo si riempie di ciò che ci avanza, un po' di cibo non deperibile, possibilmente, e lo si lascia lì a beneficio dei passanti. Sono state create mappe delle postazioni, numerate e controllate, anche se non è esente lo sciupìo di chi ne approfitta. Un cesto statico e dinamico allo stesso tempo, quello dei tempi moderni. Ci sono cesti e cesti, come ci sono SI e SI. In Amos e in Geremia, due profeti dell'Antico Testamento, i canestri pieni di fichi o frutta matura indicavano sventure. E anche Giuseppe predisse sventure dopo tre giorni, interpretando il sogno dei tre canestri fatto dal coppiere e dal panettiere del faraone d'Egitto. I cesti vanno dunque oltre la decifrazione univoca di un fenomeno, di un uso comune. Non ci possiamo trovare cumarina con l'odore dolce dell'erbetta appena tagliata, non resistono gli odori e i sogni così; ma ci troviamo concretezza "materiale" e "intestinale" nuova. Niente sogni, niente brioche, ci serve il pane, cara regina Maria Antonietta. Perché persino l'altro paniere, il paniere Istat dei beni di consumo, rileva un'impennata dell'inflazione non certo di buon auspicio. Con cento euro ci si compra poco, manco fossimo al mercato nero nei tempi della guerra. È il trickster, l'imbroglione dei nostri tempi, quel santo denaro che ci presenta tutto come immutato e che invece di immutato ha ben poco, perché ci gabba con tiri mancini lentissimi e incontrollati: ce ne accorgeremo solo alla fine, guardando il grafico dei prezzi di beni di prima necessità. Fenomenologia del mercato azionario.
Nel canone pāli buddista, dove i canestri sono tre, canestro della disciplina, canestro della dottrina e canestro della cosmologia, ci rientra invece anche la contemplazione, la staticità. Nel canone Zen, poi, "stare seduti" è l'apoteosi dell'ideale religioso di ogni adepto. Nel nostro canestro interiore, però, questo aspetto deficita proprio. Mosè fu lasciato scivolare lungo in fiume Nilo in un canestro. San Paolo si liberò dalla sua prigionia scappando dalla finestra del carcere di Damasco, nascosto dentro una cesta. La vita rinacque da quei cesti. Ebbe "possibilità". Oggi il cibo costa, e dalle ceste sospese, come moderne "preghiere sospese" dentro le cattedrali dell'anima, si può trovare giovamento materico che fa tanto "costume sociale" per i giornalisti del mondo intero. San Benedetto riceveva nella sua spelonca un tozzo di pane calato dall'alto con una corda; si svegliava al suono di un campanellino e lo afferrava. Ci mise lo zampino il diavolo, rompendo il campanello, ma il cibo gli arrivava comunque come una manna, tramite carrucole manuali e corde sospese a mezza grotta. Perché il genere umano ha bisogno di ingozzamento sostanziale, non ce la farebbe mai a misticizzare questi tempi di grama delibando la propria "carne spirituale". San Lorenzo, da buon diacono, fece arrostire se stesso ("Questo lato è cotto, giratemi", disse bloccato sulla graticola); lo fece nel martirio testimoniale di fronte alla richiesta di soldi altrui, soldi destinati alla Caritas dell'epoca. Ma la finezza claustrale delle monache o la sublimazione di se stessi per oblazione, non illècebra la forma mentis moderna. Nello Spannung di questo periodo, la svolta che si agogna è poter uscire, ritornare alla vita di sempre. Non la metànoia, il cambiamento di costumi che diventi radicalità di metamorfosi. Il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci nelle ceste, per noi vuol dire tornare come prima, più ricchi di prima, ma non certo interiormente. Non sappiamo che farcene di un tempo di reclusione. Non sappiamo gestire la noia, l'inattività. Non rischiamo di crescere, ma di decrescere. Perchè non siamo preparati a sederci, nella tensione di un'attesa che è solo mentale. Non sappiamo dire un SI che da passivante riflessivo, diventi particella pronominale. Il "SI" maiuscolo di Maria all'apparizione dell'Angelo. Un SI in cui donò il di se stessa. Ci mangia il tickster del defoult "animarum", falliamo la rinascita nicodemica che scende dall'alto con le ceste amniotiche di queste notti intramate di Dio. Nel nostro bullet journal, non c'è la pagina per l'attenzione, per l'accrescimento dell'anima, ma solo quella pragmatica per l'arricchimento del vitalizio liquido. A tal Andrea Gallerani, che da Siena finì esiliato nelle lande desolate della Maremma grossetana, lo Spannung, il clinamen, lo portò a deviare, a diventare il fondatore della "Casa della Misericordia", per prendersi cura, medicalmente parlando, degli appestati dell'epoca. Un cacciatore come Bernardo Maria Silvestrelli, visitando i Passionisti di Sant'Eutizio a Viterbo, converse la propria vicenda esistenziale verso Dio. Giacomo Papocchi da Montieri, un ragazzino che nel 1200 rubò per fame, abbandonato dai suoi stessi amici di combriccola, finito per penitenza con una mano e un piede mozzato dalle autorità, decise di farsi "murato".
"Il recluso non era un isolato, uno che si tagliava fuori dalla Comunità e che da questa era abbandonato al suo destino solitario; egli appariva invece come la sentinella scelta da Dio a salvaguardia di tutto l'accampamento, meritevole perciò di essere da tutti sostenuta nel suo posto avanzato. Ecco perchè la sua decisione eroica era salutata con gioia, come un fatto di interesse comune, e la sua entrata era una cerimonia pubblica (ecclesiale), quasi una festa di popolo. [...] il prigioniero di Cristo, mentre si estenuava in digiuni e preghiere di tutti, poteva contare sull'apporto di tutta la comunità dei fedeli." ("Il beato Giacomo da Montieri", di D. Rino Biondi, Grafiche UTA Volterra, pg. 67-68)
Giacomo Papocchi aveva giorni, ore di silenzio, durante i quali gli faceva compagnia il suono della campana. Nel rumore della città, non la sentiamo più, è un rumore tra tanti. Non era sempre solo, ovviamente, ma era spesso "disturbato" da gente che passava vicino alla sua cella e gli chiedeva preghiere, intuizioni, non avendo tempo per farlo da sé. Sognava l'ostia e Gesù scese da lui nella cella murata e gliela portò direttamente con le sue stesse mani divine. Quotidianamente c'era anche chi gli porgeva il panierino di viveri e di bevande. Spirito e corpo erano salvaguardati entrambi. Questo fu il raro, meraviglioso privilegio accordato ad una sentinella che, per accettazione ecclesiastica e per volontà personale, aveva deciso di farsi murare viva, santificando la sua vita. Era il suo SI, la sua decisione. Nessuno glielo aveva imposto. Era un suo desiderio; e la sua scelta fu l'onore di un intero paese che si poté vantare di avere un "murato" approvato dalla chiesa in seno alla propria comunità. La clausura di un uomo che non andò in convento a trovare letto e cibi e compagnia, ma preferì seppellirsi vivo, dando uno scopo alla sua esistenza come liberazione dell'anima da quel corpo mutilato, offerta di sè a Dio e intercessione per tutti i suoi compaesani: non si dimentica un uomo che decide quel tipo di SI. Non per la singolarità straziante e pazza della sua vicenda umana, ma per la donazione spontanea che lo piallò ab eternam tra quei legni ecclesiali. Cosa può apportare una vita di clausura? A se stessi, l'elevazione dei propri pensieri e della propria anima, come anche tutte le pratiche ascetiche orientali apportano. Agli altri, l'esempio e il monito che non esiste inattività, solo direzionalità. Si può scegliere cosa farne del tanto tempo libero a propria disposizione. Si può scegliere di annaspare nelle sabbie mobili del disfattismo e del malumore senza speranza, ibernando la vita. Oppure, si può osare elevarsi verso altezze metacognitive, come novelle gabbiane Fortunate finite provvidamente tra le zampe del gatto Zorba e nella penna di Luis Sepùlveda. Un uovo da mangiare, o un essere da vegliare? Restare a terra, o volare? Out out kierkegardiani. Effetti da voli pindarici rischiosi ma vocazionali. Adesso, nell'elenco dell'Olimpo letterario, il gatto e la gabbianella hanno entrambi l'eternità assicurata grazie all'inerzia sublime del cileno Sepùlveda seduto alla scrivania mentre li descrive, e ai milioni di lettori che ancora li seguono dalle loro comode "poltrone". Perché persino per gustare questa novella, il negotium ha bisogno di trasfondersi in sacro, mistico otium. E se un feedback ci sarà dato, potremmo sempre dire: "Ho avuto il tempo pieno di leggerli, Zorba e Fortunata". Non per imposizione, non per noia, ma per un plugin aggiuntivo che mi ha implementato il software base della vita ordinaria. La delizia "non necessaria" che serve soltanto a stuzzichellare il recettore del bottone gustativo. Il lampo di divino che è insito in noi e che vorrebbe soltanto essere scoperto. Tra queste insperate mura "papocchiane" regalate dagli eventi, tra questa clausura "fortunata" che non ci ammala ma ci lascia vivi in casa nostra, abbiamo tempo per scovare finalmente questo inaspettato Easter egg calato giù con la cesta dal generoso e a-temporale balcone "soprastante".

Tìndara Rasi - Copyright © 2020 - tutti i diritti riservati

domenica 8 marzo 2020


LA STORIA DI PALO DE HORMIGO
di Rigoberta Menchù

Il signor Palo de Hormigo si svegliò triste. Non c'era ragione di esserlo. Il mattino era splendido, gli altri alberi si stiracchiavano contenti delle loro foglie e dei loro rami, gli scoiattoli saltavano d un ramo all'altro, gli uccelli annunciavano il sole e prima dell'alba stavano già cantando, come se fosse festa tutti i giorni. Il signor Palo de Hormigo non aveva ragione di essere triste eppure si svegliò triste.
Il Palo de Hormigo è un albero robusto: grosso, frondoso, con foglie verdissime e, soprattutto, con un legno duro, duro, duro. Il legno più duro del bosco. Il picchio arriva con il suo becco esperto nell'aprire buchi in tutti gli alberi e, dopo aver tentato di fare il suo nido nel signor Hormigo, rimaneva con il becco che sembrava una molla. Era un albero duro e solido. Forse per questo dava la sensazione di proteggere tutti gli uccelli. E allora gli uccelli arrivavano, tutti gli uccelli del bosco, i sanates, i cenzontles, gli uccelli canterini, i guardabarranca, i passeri, tutti gli uccelli arrivavano, si appoggiavano sui rami dell'Hormigo e si mettevano a cantare le loro canzoni antiche, antiche come il mondo. Avvenne quindi che la musica degli uccelli cominciò a penetrare nelle foglie, nei rami, nella linfa del signor Hormigo, fino a raggiungere il suo cuore. Quanto più gli uccelli cantavano, tanto più il signor Hormigo si riempiva di musica, esplodeva di musica, la musica gli sprizzava dal cuore.
cercò di cantare, ma non ci riuscì. Non aveva la bocca degli uomini, né il becco degli uccelli. Si rese conto che tutto l''universo cantava: i mari ruggivano quando erano agitati, e poi la spuma delle loro acque andava a frangersi sulle spiagge con un sospiro tonante; il vento passava fra i rami degli alberi e si diceva che sussurrasse; i precipizi rispondevano con l'eco ogni volta che qualcuno li chiamava; i ruscelli dicevano cose incomprensibili, mentre saltavano da una pietra all'altra; le caverne sulle montagne ululavano, e perfino altri alberi fischiavano. Il signor Hormigo si rese conto che anche tutti gli altri animali cantavano: ruggivano i giaguari e gli zaraguates, i lupi e i coyote ululavano, le scimmie gridavano e, in generale, ognuno si sfogava a più non posso. Il signor Hormigo riconobbe che il Cuore del Cielo e il Cuore della Terra avevano creato un mondo sonoro. E solo lui, che era sul punto di scoppiare dalla voglia di dire qualcosa, rimaneva muto in mezzo alla foresta!
Per questo il signor Palo de Hormigo si svegliò triste.
«Non ti basta che il vento fischi tra le tue foglie?», gli domandò uno scoiattolo.
«No, non mi basta», rispose, «voglio lo stesso dono della musica che hanno gli animali, i ruscelli e i fiumi.»
Sapeva bene che quello era il destino degli alberi, ma voleva cantare per emettere dalle sue viscere tutti i trilli che gli uccelli gli avevano regalato nel corso della sua vita. Per questo sospirava tristemente. Aveva una malattia che si chiamava malinconia: è la malattia di un sogno, di un desiderio, di una nostalgia. La cosa peggiore fu che la malattia della nostalgia divenne contagiosa. All'improvviso gli uccelli, che vivevano sui rami del signor Hormigo, smisero di cantare. Anche loro erano tristi, e invece di cantare, emettevano lunghi sospiri, come se avessero perso le forze. E agli uccelli degli alberi vicini, sconcertati, succedeva che ogni volta che volevano fare un trillo o un grido, usciva solo un profondo avvilimento, come se il loro cuore fosse finito nell'angolo più oscuro dell'abisso e non riuscissero a trovare l'energia per andare a cercarlo. E il male si andò estendendo a tutti gli uccelli, e dagli uccelli agli altri animali. I cani non abbaiavano più, lanciavano solo i loro famosi sguardi pieni di tristezza. Le scimmie non gridavano, chinavano il capo e il loro sguardo si perdeva all'orizzonte. E così tutti gli animali, e dagli animali la malattia della nostalgia passò ai ruscelli, che smisero di mormorare, e ai mari, che rimasero calmi come se non ci fosse vento, e ai venti, che smisero di fischiare, e ai leoni, che non facevano più i loro terribili sbadigli. Di colpo il mondo rimase muto. Il mondo divenne sordo.
E il Cuore del Cielo e il Cuore della Terra udirono quel grande silenzio dilagare nell'Universo.
«Che cosa è successo?» si domandarono. «Che cos'è questo silenzio che stiamo ascoltando? Perché c'è così tanta tristezza nel mondo?»
Lo domandarono alle colline e ai fiumi e questi risposero: «Signori, sicuramente il vento lo sa». Lo domandarono al vento, e questi con umiltà disse: «Padre e Madre, il motivo per cui tutti gli animali dell'acqua, della terra e dell'aria stanno zitti è la malinconia. Se la sono passata l'uno all'altro finché si è estesa per ogni dove. Ma l'origine di tutto, l'inizio di questa tragedia ha luogo nel cuor della foresta, con la tristezza che ha pervaso il Palo de Hormigo».
Allora il Cuore del Cielo e il Cuore della Terra andarono dal signor Palo de Hormigo e gli domandarono che cosa gli stesse succedendo.
«Padre e Madre», rispose l'Hormigo, «perdonatemi per aver contagiato tutto l'universo con la mia malinconia. Succede che con gli anni mi sono impregnato così tanto di musica che non mi basta più il semplice fischio che il vento produce quando passa tra le mie foglie.»
«Padre e Madre: voglio cantare, ho bisogno di tirar fuori tutta la forza della musica che vive dentro di me!»Questo disse il signor Hormigo al Cuore del Cielo e al Cuore della Terra.
Il Cuore della Terra, la Madre Natura, rispose all'Hormigo: «Figlio mio, non essere più triste» gli disse, «tu sai che ogni essere della creazione ha un compito da svolgere per raggiungere l'armonia». E aggiunse: «Sai anche che a ognuno è stato assegnato un modo diverso per dire al mondo quello che prova. Gli alberi devono fischiare con l'aiuto del vento, così come le caverne devono ululare e i fiumi e i ruscelli cantare».
La Madre continuò: «Tuttavia, la tua tristezza ci ha commosso. Consulteremo Nonno Sole e Nonna Luna e domani, all'alba, verrà un quetzal dalle piume brillanti a posarsi sul più alto dei tuoi rami e ti dirà all'orecchio il messaggio dei Nonni». I Genitori si congedarono dall'Hormigo dicendogli: «Non essere più triste, figlio caro, voglio vedere di nuovo la tua allegria affinché tutti gli animali dell'aria, dell'acqua e della terra tornino a riempire con i loro suoni i quattro angoli dell'universo».
Il giorno dopo, con i primi bagliori di luce, comparve un quetzal dalle piume verdi e lucenti. Si posò sulla parte più alta dell'Hormigo e iniziò a trasmettere il suo messaggio. «Nonna Luna ha dato il suo parere», disse il quetzal, «e ti manda un acquazzone di polvere di giada che ti lavi via la malinconia che ha ammalato le tue radici, il tuo tronco, i tuoi rami e le tue foglie. D'ora in poi contagerai allegria e voglia di vivere dalle viscere della foresta. Il tuo seme si estenderà ai boschi e migliaia di Palos de Hormigo popoleranno la terra.» Il quetzal prese fiato e proseguì dicendo: «Nonna Luna ha sentenziato che il destino degli alberi è fischiare con il vento e che cantare non appartiene alla loro natura. Tuttavia, commossa dalla tua tristezza, la Nonna ti ha concesso il dono della musica e mi ha raccomandato di spiegarti quanto accadrà in futuro».
Il quetzal ripeté le parole della Nonna: «Gli uomini di mais saranno creati per popolare la terra e onorare il nome dei loro genitori e dei loro Nonni. Gli uomini di mais saranno saggi e impareranno a far produrre la terra e a coltivare le scienze e le arti. Le donne e gli uomini porteranno nel loro spirito il dono della musica, lo stesso che ti abbiamo concesso, Palo de Hormigo». Il quetzal continuò dicendo: «L'uomo di mais scoprirà che nel tuo legno, Palo de Hormigo, è concentrato lo spirito del canto degli uccelli. Quando l'avrà scoperto, taglierà il tuo legno in strisce lunghe, e le chiamerà tavolette, e quelle tavolette, percosse da una bacchetta di legno con una pallina di caucciù sulla punta, produrranno il suono più puro, la musica più gradevole dell'universo, e tutte le tavolette messe assieme, legate, e suonate sulle grandi zucche secche, popoleranno l'aria della montagna con la stessa armonia della pioggia nei pomeriggi tranquilli, o con la soavità dei ruscelli che scendono dalle montagne, o con il chiasso mattutino degli uccelli. Lo strumento che gli uomini fabbricheranno per estrarre la musica che si trova nelle tue viscere si chiamerà marimba, e farà la gioia delle orecchie della gente nelle feste e nei balli, nei momenti di riposo e di riflessione. Solo così uscirà da te tutta la musica che custodisci come un tesoro».
In tal modo, il signor Palo de Hormigo si trasformò in marimba. Da quando gli uomini di mais sono stati creati, ricavano dal suo spirito il dono della musica che gli è stato dato dai creatori, dagli artefici. Avevano sempre saputo che nelle viscere del Palo de Hormigo c'era la musica che avrebbe rallegrato le loro feste e gli avrebbe insegnato a ballare: la musica che avrebbe potuto anche accompagnare le loro tristezze, per ricordare il tempo in cui il Palo de Hormigo si era ammalato di malinconia.

Queste sono le storie che mi raccontava la Nonna, le storie che mi raccontava il Nonno. Ve le racconto così come mi sono state raccontate. Sono storie antiche come il mondo, da ascoltare di notte, intorno al fuoco, un attimo prima di chiudere gli occhi e incominciare a sognare.

"La storia di Palo de Hormigo" si trova nel libro "Il vaso di miele", contenuto nella raccolta "IL MAGICO MONDO DI CHIMEL. STORIE DI UNA BAMBINA MAYA", di Rigoberta Menchù (pacifista guatemalteca, Premio Nobel per la Pace nel 1992), con Dante Liano, Ed. Sperling&Kupfer, 2005