LA
CESTA SOLIDALE PER L'ANIMA
di
Tìndara Rasi
Nell'impasto
stilistico di una vicenda letteraria, si arriva ad un punto, detto
"Spannung"
che è quello di maggior tensione, quello che permette all'azione di
risolversi o di precipitare con un colpo di scena risolutivo, quello
che origina la conclusione dopo alterne peripezie.
Qualcosa
del genere accade al viandante, al girovago. Cammina, cammina e ad un
certo punto si dispiega, inaspettata di fronte a sé, la Serendipity,
l'El
Dorado, la Timbuktù, il
paesaggio/passaggio insperato. Per raggiungere quel "luogo",
non si traccia quasi mai un percorso lineare e prestabilito, ma se ne
percorre uno ondivago. Si "trottola" per calembour
di una spirale non-sense,
degna del pancione "patafisico"
di Alfred Jarry. Non si appalta ad altri il proprio destino, dunque,
ma se ne diventa protagonisti. Tra errori e mistificazioni, tra
giravolte e ripensamenti, alla meta si giunge, marcendo le piante dei
piedi con calloni e ferite.
Cosa
modifica però il risultato di un viaggio mentale o reale? Il
background
personale, certo, lo sfondo retroculturale ed esperienziale. La
scelta di partire, di non fermarsi al solito miraggio. La capacità
di volgere verso un determinato bivio tutto ciò che ci si accade, il
momento che si vive, il luogo sul quale si transita. Ma anche una
certa dose di clinamen
epicureo, di asimmetria barionica da Big bang primordiale. Una foglia
cade, e per attrazione terreste arriva a terra; eppure è un colpo di
vento che può determinare la sua discesa, il punto di atterraggio,
la velocità, la deviazione, la collisione o lo sfioramento con altre
foglie. C'è una "soggettività anonima", disse il filosofo
Husserl, che opera nascostamente in qualsiasi esperienza. Lo
"Spannung"
della vita...
Siamo
in epoca di distanziamento sociale. Ciò ha appaltato le nostre
coscienze. Ci sono SI,
e SI.
C'è il SI
impersonale che tanto amò Edoardo Sanguineti nel libro "Il
giuoco dell'oca" (1967) tra rimandi di pagine e pagine come
dentro un moderno libro-games;
quel SI
che
vale per tutti, indistintamente, nella grammatica italiana. C'è poi
il SI
passivante,
quello che dal transitivo attivo, volge al passivo: lo
si
potrebbe fare.... C'è il SI
riflessivo (ripiegato su noi stessi, sulla nostra persona, tocca il
sé...);
ma anche il SI
riflessivo apparente
(riferito a parti della propria persona... toccarsi
le mani, i piedi...), e il riflessivo reciproco
(Tizio e Caio si
abbracciano). E infine c'è il SI
particella pronominale, quello che sostituisce il nome
nell'incamminarsi.
Usare quei SI
è un atto linguistico ma anche di coscienza. Anche perché cosa
viene detto (senso denotativo), è diverso dal come
viene detto (senso connotativo). I SI
possono essere enunciati constativi, cioè che necessitano di capire
la falsità o la verità del loro senso (come un soggettivistico
"siate"
al congiuntivo ...
e chissà
se poi davvero sarete...);
ma anche enunciati performativi che necessariamente si attueranno,
perché già regolati da norme sociali o da usanze (come un "siete"
indicativo). In questa situazione di emergenza, noi siamo
"parentesigraffati" tra i confini dell'enunciato
constativo. Ma è il performativo che ci piace, quello che decreta
l'atto: io ti sposo, io mi muovo. Non qualcosa che farò dopo, forse,
da esperire; ma che faccio, sicuro, adesso. Vorremmo che il senso
denotativo e quello connotativo, coincidessero.
Eppure
il clinamen
di
Epicuro, con un colpo d'atomo in collisione con un altro, ci ha
spazzato verso altri SI.
Quelli che non esistono grammaticalmente, ma sono i SI
di
postazione. Fermi. Una postazione di sentinelle in attesa, come nel
"Deserto dei Tartari" di Dino
Buzzati.
Non ci siamo abituati. Per questo ci pesa il distanziamento sociale
imposto. Ci sentiamo kikikomori,
assoggettati alle videoconferenze: i contatti non ci mancano, ma ci
manca la gioia della grandezza fisica vettoriale detta "forza",
che determina un moto dinamico spontaneo. Le neuroscienze ci
tranquillizzano, dicendo che esiste il default
mode network (DMN):
la nostra mente lavora allo stesso modo sia in attività, risolvendo
un complesso calcolo matematico, che a riposo. Ma non ci crediamo più
di tanto. L'inattività uccide l'economia e anche la stabilità
mentale.
Tuttavia,
un tempo questo SI
di postazione era più accettato e considerato, perché intenzionale,
"previsto" da un campo che oggi non esiste più, quello
contemplativo della mistica religiosa. Resiste, in area orientale; si
è rarefatto in quello europeo. I romiti o eremiti, non hanno voce,
non rientrano nelle nostre categorie di pensiero e di vita. Clarisse,
carmelitane, erano contemplative d'eccellenza. Guardo il "Canestro
di frutta" di Caravaggio e ne osservo la staticità, la fissità
tra
la
la cornice del quadro dentro un monitor di computer. Immortalato,
immobilizzato per l'eternità, quel canestro. Adesso il paniere, il
cesto della solidarietà, da Napoli si è diffuso in tutta Italia.
Esisteva il "caffè sospeso", la pratica di lasciare pagato
un caffè al prossimo che entrava nel bar, senza soldi; ora c'è il
"cesto sospeso", lasciato penzolare dai balconi (ma senza
intralciare il manto stradale), dove "chi ha metta, chi non ha
prenda", come diceva San Giuseppe Moscati. Lo si riempie di ciò
che ci avanza, un po' di cibo non deperibile, possibilmente, e lo si
lascia lì a beneficio dei passanti. Sono state create mappe delle
postazioni, numerate e controllate, anche se non è esente lo sciupìo
di chi ne approfitta. Un cesto statico e dinamico allo stesso tempo,
quello dei tempi moderni. Ci sono cesti e cesti, come ci sono SI
e SI.
In Amos e in Geremia, due profeti dell'Antico Testamento, i canestri
pieni di fichi o frutta matura indicavano sventure. E anche Giuseppe
predisse sventure dopo tre giorni, interpretando il sogno dei tre
canestri fatto dal coppiere e dal panettiere del faraone d'Egitto. I
cesti vanno dunque oltre la decifrazione univoca di un fenomeno, di
un uso comune. Non ci possiamo trovare cumarina con l'odore dolce
dell'erbetta appena tagliata, non resistono gli odori e i sogni così;
ma ci troviamo concretezza "materiale" e "intestinale"
nuova. Niente sogni, niente brioche,
ci serve il pane, cara regina Maria Antonietta. Perché persino
l'altro paniere, il paniere Istat dei beni di consumo, rileva
un'impennata dell'inflazione non certo di buon auspicio. Con cento
euro ci si compra poco, manco fossimo al mercato nero nei tempi della
guerra. È il trickster,
l'imbroglione dei nostri tempi, quel santo denaro che ci presenta
tutto come immutato e che invece di immutato ha ben poco, perché ci
gabba con tiri mancini lentissimi e incontrollati: ce ne accorgeremo
solo alla fine, guardando il grafico dei prezzi di beni di prima
necessità. Fenomenologia del mercato azionario.
Nel
canone pāli
buddista, dove i canestri sono tre, canestro della disciplina,
canestro della dottrina e canestro della cosmologia, ci rientra
invece anche la contemplazione, la staticità. Nel canone Zen, poi,
"stare seduti" è l'apoteosi dell'ideale religioso di ogni
adepto. Nel nostro canestro interiore, però, questo aspetto deficita
proprio. Mosè fu lasciato scivolare lungo in fiume Nilo in un
canestro. San Paolo si liberò dalla sua prigionia scappando dalla
finestra del carcere di Damasco, nascosto dentro una cesta. La vita
rinacque da quei cesti. Ebbe "possibilità". Oggi il cibo
costa, e dalle ceste sospese, come moderne "preghiere sospese"
dentro le cattedrali dell'anima, si può trovare giovamento materico
che fa tanto
"costume sociale" per i giornalisti del mondo intero. San
Benedetto riceveva nella sua spelonca un tozzo di pane calato
dall'alto con una corda; si svegliava al suono di un campanellino e
lo afferrava. Ci mise lo zampino il diavolo, rompendo il campanello,
ma il cibo gli arrivava comunque come una manna, tramite carrucole
manuali e corde sospese a mezza grotta. Perché il genere umano ha
bisogno di ingozzamento sostanziale, non ce la farebbe mai a
misticizzare questi tempi di grama delibando la propria "carne
spirituale". San Lorenzo, da buon diacono, fece arrostire se
stesso ("Questo
lato è cotto, giratemi",
disse bloccato sulla graticola); lo fece nel martirio testimoniale di
fronte alla richiesta di soldi altrui, soldi destinati alla Caritas
dell'epoca. Ma la finezza claustrale delle monache o la sublimazione
di se stessi per oblazione, non illècebra
la forma
mentis
moderna. Nello
Spannung
di questo periodo, la svolta che si agogna è poter uscire, ritornare
alla vita di sempre. Non la
metànoia,
il cambiamento di costumi che diventi radicalità di metamorfosi. Il
miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci nelle ceste, per
noi vuol dire tornare come prima, più ricchi di prima, ma non certo
interiormente. Non sappiamo che farcene di un tempo di reclusione.
Non sappiamo gestire la noia, l'inattività. Non rischiamo di
crescere, ma di decrescere. Perchè non siamo preparati a sederci,
nella tensione di un'attesa che è solo mentale. Non sappiamo dire un
SI
che da passivante riflessivo, diventi particella pronominale. Il "SI"
maiuscolo di Maria all'apparizione dell'Angelo. Un SI
in cui donò il sè
di se stessa. Ci mangia il tickster
del
defoult
"animarum",
falliamo la
rinascita nicodemica che scende dall'alto con
le ceste amniotiche di
queste
notti intramate di Dio. Nel
nostro bullet
journal,
non c'è la pagina per l'attenzione, per l'accrescimento dell'anima,
ma solo quella pragmatica per l'arricchimento del vitalizio liquido.
A tal Andrea Gallerani, che da Siena finì esiliato nelle lande
desolate della Maremma grossetana, lo Spannung,
il clinamen,
lo portò a deviare, a diventare il fondatore della "Casa della
Misericordia", per prendersi cura, medicalmente parlando, degli
appestati dell'epoca. Un cacciatore come Bernardo Maria Silvestrelli,
visitando i Passionisti di Sant'Eutizio a Viterbo, converse la
propria vicenda esistenziale verso Dio. Giacomo Papocchi da Montieri,
un ragazzino che nel 1200 rubò per fame, abbandonato dai suoi stessi
amici di combriccola, finito per penitenza con una mano e un piede
mozzato dalle autorità, decise di farsi "murato".
"Il
recluso non era un isolato, uno che si tagliava fuori dalla Comunità
e che da questa era abbandonato al suo destino solitario; egli
appariva invece come la sentinella scelta da Dio a salvaguardia di
tutto l'accampamento, meritevole perciò di essere da tutti sostenuta
nel suo posto avanzato. Ecco perchè la sua decisione eroica era
salutata con gioia, come un fatto di interesse comune, e la sua
entrata era una cerimonia pubblica (ecclesiale), quasi una festa di
popolo. [...] il prigioniero di Cristo, mentre si estenuava in
digiuni e preghiere di tutti, poteva contare sull'apporto di tutta la
comunità dei fedeli." ("Il
beato Giacomo da Montieri", di D. Rino Biondi, Grafiche UTA
Volterra, pg. 67-68)
Giacomo
Papocchi aveva giorni, ore di silenzio, durante i quali gli faceva
compagnia il suono della campana. Nel rumore della città, non la
sentiamo più, è un rumore tra tanti. Non era sempre solo,
ovviamente, ma era spesso "disturbato" da gente che passava
vicino alla sua cella e gli chiedeva preghiere, intuizioni, non
avendo tempo per farlo da sé. Sognava l'ostia e Gesù scese da lui
nella cella murata e gliela portò direttamente con le sue stesse
mani divine. Quotidianamente c'era anche chi gli porgeva il panierino
di viveri e di bevande. Spirito e corpo erano salvaguardati entrambi.
Questo fu il raro, meraviglioso privilegio accordato ad una
sentinella che, per accettazione ecclesiastica e per volontà
personale, aveva deciso di farsi murare viva, santificando la sua
vita. Era il suo SI,
la sua decisione. Nessuno glielo aveva imposto. Era un suo desiderio;
e la sua scelta fu l'onore di un intero paese che si poté vantare di
avere un "murato" approvato dalla chiesa in seno alla
propria comunità. La clausura di un uomo che non andò in convento
a trovare letto e cibi e compagnia, ma preferì seppellirsi vivo,
dando uno scopo alla sua esistenza come liberazione dell'anima da
quel corpo mutilato, offerta di sè a Dio e intercessione per tutti i
suoi compaesani: non si dimentica un uomo che decide quel tipo di SI.
Non per la singolarità straziante e pazza della sua vicenda umana,
ma per la donazione spontanea che lo piallò ab
eternam
tra quei legni ecclesiali. Cosa può apportare una vita di clausura?
A se stessi, l'elevazione dei propri pensieri e della propria anima,
come anche tutte le pratiche ascetiche orientali apportano. Agli
altri, l'esempio e il monito che non esiste inattività, solo
direzionalità. Si può scegliere cosa farne del tanto tempo libero a
propria disposizione. Si può scegliere di annaspare nelle sabbie
mobili del disfattismo e del malumore senza speranza, ibernando la
vita. Oppure, si può osare elevarsi verso altezze metacognitive,
come novelle gabbiane Fortunate finite provvidamente tra le zampe del
gatto Zorba e nella penna di Luis Sepùlveda. Un uovo da mangiare, o
un essere da vegliare? Restare a terra, o volare? Out
out kierkegardiani.
Effetti da voli pindarici rischiosi ma vocazionali. Adesso,
nell'elenco dell'Olimpo letterario, il gatto e la gabbianella hanno
entrambi l'eternità assicurata grazie all'inerzia sublime del
cileno
Sepùlveda seduto alla scrivania mentre li descrive, e ai milioni di
lettori che ancora li seguono dalle loro comode "poltrone".
Perché persino per gustare questa novella, il negotium
ha bisogno di trasfondersi in sacro, mistico otium.
E se un feedback
ci sarà dato, potremmo sempre dire: "Ho avuto il tempo
pieno
di leggerli, Zorba e Fortunata". Non per imposizione, non per
noia, ma per un plugin
aggiuntivo che mi ha implementato il software
base
della vita ordinaria. La delizia "non necessaria" che serve
soltanto a stuzzichellare il recettore del bottone gustativo. Il
lampo di divino che è insito in noi e che vorrebbe soltanto essere
scoperto. Tra queste insperate mura "papocchiane" regalate
dagli eventi, tra questa clausura "fortunata" che non ci
ammala ma ci lascia vivi in casa nostra, abbiamo tempo
per scovare finalmente questo inaspettato Easter
egg
calato giù con la cesta dal generoso e a-temporale
balcone
"soprastante".
Tìndara
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