mercoledì 1 gennaio 2025

 


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La probatio pennæ di suor Daniela Solustri ad Esso basta

di Tìndara Rasi

La paleografia è una disciplina interessante e lo stesso la codicologia. Per studiare documenti antichi, gli esperti di questi due settori applicano severi protocolli disciplinari. Dietro ogni scritto c’è un’epoca da rintracciare, una cultura da indagare, una persona da individuare. E laddove quest’ultimo punto non è possibile, si utilizza un termine generico: scriba.

In molte carte di guardia medievali, a un certo punto si rintracciano righe di testo apparentemente slegate e senza senso, oppure minuscoli disegni, o ancora elencazioni di parole. Gli scribi si distraevano e giocavano un secondo? Volontariamente sfregiavano la bellezza di una pagina del lavoro amanuense, per dispetto verso qualche collega? Che significato reale hanno quei pensieri a margine, quegli svolazzi scritturali o artistici?

Una risposta sensata c’è: la probatio pennæ. La penna, letteralmente la parte di piumaggio più robusta di un animale, esigeva per l’uso di essere tagliata in un certo modo e poi di essere provata. Quelle frasi, quelle parole, quei disegni erano prove per testare l’efficacia e il buon funzionamento dello strumento scrittorio. Talvolta la penna era già abbondantemente consumata, e allora si trattava solo di prove tecniche per abituare polso e mano a un altro carattere di scrittura.

La probatio pennæ oggi, con l’era tecnologica e informatica, non ha più diritto di esistenza. Tuttavia, per qualsiasi autore, ogni primo libro rappresenta quel gesto: rompere gli indugi, affinare gli arnesi, lanciarsi in un’avventura editoriale e redazionale.

Il timore e l’impazienza verso le nostre stesse incapacità, ci fa percepire il peso gravoso di tale sfida. Parlare dell’ousìa di una cosa che è quella che è, e non altra, è complesso. Si può tendere a una trascrizione elegiaca verso ogni spettacolo esistenziale ritenuto glorioso. Oppure si può rifuggire verso una lingua ignota e “costruita”, come diceva la religiosa benedettina Ildegarda di Bingen, una lingua innovativa che veli e smussi. Si può essere totalmente autoreferenzialisti. O abbandonarsi a un punto di determinazione esteriore che ci dipinga con assoluta obiettività. Dunque, alla fine del faticoso lavoro scritturale complessivo, di un beta reader e di un cdb, cioè di un correttore di bozze, appare urgente richiederne la collaborazione. Improcrastinabile questo tipo di aiuto esterno per giungere alla pubblicazione.

E se l’uso di sigle e di inglesismi oggi va di moda, beta reader e cdb si possono però condensare in un unico termine: relazione. Tra alfa e omega, un piccolo beta ci sta. Dio richiede a tutti una compartecipazione. Lo ha richiesto Egli stesso all’umanità storica, per mettere su carta il Suo Verbo. Lo richiede a noi oggi, per camminare in una relazione non imposta ma condivisa con Lui.

Tutto questo l’ho capito meglio un 1° luglio di due anni fa. Cosa poteva mai accadere nel giorno estivo che decreta la metà esatta di un anno, l’istante centrale che suddivide i 183 giorni dall’inizio dell’anno dai restanti 183 dalla fine? In tale data si celebra anche la festa religiosa del Preziosissimo Sangue di Cristo. Un giorno, dunque, estremamente significativo ed evocativo per qualunque sentire spirituale. Partecipando a un corso professionale, una linea di tesatura elettrica friccicante mi ha connessa ad altri pali di luce radiante e non potevo non percepirlo. Tutto si è svolto velocemente, come se io fossi mossa da una scossa benigna, perfetta nei volt e nella risultanza luminosa. Sono entrata nella sala dove si svolgeva l’evento, ho firmato la presenza, ho salutato qualche collega e alla fine, con un ampio sguardo, ho abbracciato la platea in cerca di un posto a sedere. C’era una monaca. Ho pensato: “Vado a sedermi da lei, starò bene. Scambiarci due chiacchiere piacevoli tra una pausa e l’altra sarà piacevole. E ho proprio voglia, dopo diverso tempo di digiuno, di parlare di cose sacre”.

Suor Daniela mi è rimasta seduta accanto tutto il tempo. Mi ha accolta, mi ha ascoltata, mi ha raccontato. Abbiamo scoperto di avere una spiritualità carmelitana in comune, io da laica, lei da religiosa. Nella pausa, le ho comprato al bar una pastarella vuota. Volevo condividere qualcosa non solo a parole, ma anche tangibile. Il pasto comune. Poi, all’ultimo secondo, le ho donato anche i santini benedetti della Madonna nera del Tìndari, tutti quelli che avevo in borsa e che per strana coincidenza bastavano a rifornire lei e tutte le sue consorelle nel monastero dove abita al Cerreto di Sorano. Chi mi conosce sa bene che lo faccio sempre, con chiunque incontro e che so essere credente. Ma questa volta è stato un gesto quasi disperato: stava finendo l’incontro e io non avevo pensato a donargliele, come mio solito, se non negli ultimi minuti, contando frettolosamente nel borsello per capire se ne avevo a sufficienza, o se invece rischiavo di deludere qualcuna delle sue consorelle che non avrebbe ricevuto quell’effigie. Qualche minuto dopo, o un numero insufficiente di santini bastevole per tutte, e non lo avrei più fatto, il momento giusto sarebbe svanito.

La Madonna nera del Tìndari si festeggia l’8 settembre. E anche questa è una data che ci accomuna: il mio onomastico, la sua professione religiosa che è avvenuta proprio in tale data. Non lo avremmo mai scoperto, se non le avessi donato quei santini benedetti. Coincidenze benedette. Oltre ai santini, ci siamo scambiate il numero di telefono, chissà… Insomma, nessuna evidenza strabiliante. Una conoscenza tranquilla, un momento come tanti nella vita di due persone. Ma che ha riempito di grazia entrambe, da quel che ci siamo confessate in seguito. Che ha segnato un punto nell’ascesa della montagna carmelitana di tutte e due, probabilmente.

Non so cosa mi ha mossa e guidata quel giorno. Anzi: lo so. So di aver conosciuto Suor Daniela perché doveva rompersi la punta di una penna in modo che si potesse iniziare, o continuare, con rinnovata tenacia, a scrivere una bella storia. Suor Daniela ha ascoltato la mia storia, infatti, e avrà pensato: “Eddài, se c’è l’ha fatta a diventare scrittrice lei…” Io ho ascoltato la sua storia e ho pensato: “Eddài, se non ce la fa a pubblicare lei…

Questa storia, dunque - che non ho scritto io e forse nemmeno lei – mi è apparsa subito come non avente bisogno di costruzioni artificiose. La lingua ignota di Ildegarda di Bingen che rilessifica i termini tramite 23 lettere trasmutate per fini mistici, che inventa parole che riprogrammano la realtà con neologismi mossi da spinta etica e morale, che vogliono rivoluzionare le parole in modo da essere sempre più vicine al linguaggio divino, non è un sofisma necessario quando si parla della vita. Suor Daniela scrive di sé, della sua vita come atto di amore donato verso Dio, come goccia di rugiada illuminata dalla luce di Lui. Io ho letto le bozze, sto rileggendo il libro pubblicato. E in questa azione di lettura ho ritrovato e ritrovo anche un po’ di me.

Sono sempre più convinta di essermi seduta su quella poltroncina, accanto a lei, quel giorno, perché avevo bisogno io di leggere una storia altrui, che mi riconsegnasse Lui. Eravamo agganciate a due sedute diverse. Ma a un’unica missione.

Lei quindi adesso ha pubblicato; io che ho corretto, consigliato, aiutato per mesi nella revisione servizievole, ora ri-leggo il risultato finale. Relazione... Questa è l’unica definizione, l’unica parola essenziale, capace di descrivere l’entità del mistero di ogni incontro, anche del nostro quel giorno. Una relazione trinitaria terrena e celeste rituale: Dio detta, l’amanuense trascrive, l’essere umano legge.

Suor Daniela in questo – a detta sua - libercolo, dichiara spesso: “Adesso basta!” Questo grido lo dissemina tra le pagine con una lievità e una gravità che mi commuovono. Un imperativo così, che quando si è bambini ci blocca e ci spaventa, talvolta ci rompe i timpani per fermarci di fronte a un pericolo, impedendoci magari di attraversare una strada ad alta velocità, da adulti assume altre sfumature. Adesso basta! diventa: è l’ora di cambiare vita. Oppure, Adesso basta! è quello che ci diciamo quando capiamo che non si può pensare di correre sempre e solo facendo affidamento sulle proprie gambe, sulle proprie risorse: è necessario affidarsi a qualcuno che ci sorregge, è necessario lasciarsi accarezzare le guance dal vento dello Spirito, lasciarsi abbracciare. Adesso basta! è il mi affido a Te, mi hai convinta.

Ma il pensiero corre al do ut des: come ricambio questo Suo sostenermi nel mio abbandono? Beh, Adesso basta! anche cercare moti propulsori che ci spingano a ricambiare nella relazione, costrettamente, necessariamente. Devo darti qualcosa, Dio. Tu mi hai riempita di grazia… devo contraccambiare… Devo… Devo… No, invece. Perché niente di ciò che è terrestre e umano, sarà mai un giusto dono da portare quando si andrà a trovarlo a casa sua. Ogni cosa fatta, ogni cosa pensata, ogni cosa realizzata, risulterà sempre una minutaglia scandalosa, una sciocchezza di nessun valore rispetto al Suo averci donato la vita.

Consapevoli di ciò, ci sentiamo spesso sopraffare dal disagio: che figuraccia che facciamo, continuamente, di fronte a Lui. Anche un atto scritturale... come appare sempre imperfetto, impreciso, indegno di parlare di Lui e della relazione con gli altri tramite Lui. Prima di darlo davvero alle stampe, quante limature da scrittrice, quanti consigli da lettore beta, quante correzioni da cdb… C’è tanto, tanto lavoro da fare e ogni volta riprende lo sgomento di un risultato non ancora buono da mandare in rotativa. Mille ripensamenti, mille rielaborazioni… Un affanno ingiustificato, ma comune. Poi il pensiero decisivo: Adesso basta! Per un motivo molto semplice: “L’anima mia era come un libro nel quale il Padre leggeva meglio che io stessa”, diceva santa Teresa di Lisieux. Non c’è da scrivere nulla di perfetto, oltre quello che già Lui ha scritto per noi. Ci è richiesto solo di “amare sino a morire di amore”. Se questo alberga nel nostro processo comunionale e cammina - a volte meno rapido, a volte più spedito - dentro il nostro ondivagare da proficienti, se comprendiamo che tutto il fare, il vivere è relazione pro bono, ad un certo punto è necessario cessare l’affanno della corsa alla perfezione, placare l’ansia: Adesso basta! Chi siamo e come siamo, e come e quanto imperfettamente o perfettamente ricambiamo il Suo innestarci in relazione, ad-esso-basta. Se abbiamo o non abbiamo una gamba o un braccio, se siamo sani o malati, se sappiamo scrivere autoralmente o se siamo semplici scribi sotto dettatura, se possediamo e valorizziamo i talenti evidenti o meno, non ha nessuna importanza. Ha importanza se amiamo come Lui ci ama. Ha importanza il nostro sì, mossi dalla circumsessĭo trinitaria. È questo che ad-esso, e sempre, basta. O meglio: che ad Esso, con la E maiuscola, basta.

L’imperfezione a volte non si accetta, come non si accetta la sofferenza fisica. Ma non dipendendo dalla nostra volontà, hanno entrambi ammissibilità a esistere. Il tentennamento, la titubanza ingiustificata invece, no, non devono permanere e possiamo e dobbiamo debellarli. Ogni volta temiamo di tagliare il calamo della piuma e dare il via al rito della probatio pennæ. Invece bisogna fare, agire, dire sì, senza paura di sbagliare. Adesso ad Esso! Questa è l’unica cosa che conta ed è l’unica cosa che basta. Bisogna spostare l’accento da un avverbio di tempo della grammatica umana, ad una “parola d’autore” diversa. Bisogna osare parole d’Amore nuove.

Non sempre ci riusciamo, ovvio. Rompere la punta della penna… lasciarsi rompere… per diventare opere d’arte nelle Sue mani, non è facile. Ci manca il coraggio di affidarci e di lasciarci plasmare. Ci blocca la fatica, l’insicurezza, la sofferenza. Ma sono davvero convinta che sia sempre il Suo Amore a primeggiare, ad andare oltre ogni nostro sciocco, quotidiano, scorretto divagare tra mille puntini di sospensione... Che sia Lui l’Azione che muove all’azione. A Dio, quanto noi possiamo in Lui sufficit. A Dio, che ama a prescindere, ogni prova di calamaio, compresa quella di suor Daniela ai margini della sua pagina, finalmente giunta alla luce, basta.

Tìndara Rasi

mercoledì 28 dicembre 2022



 A NATALE TI REGALO L'AMORE, UN LIBRO DI BARBARA SCOTTO

di Tìndara Rasi


In questi giorni di festa si legge un libro smaccatamente natalizio, comprato al volo in libreria et voilà... si conosce Barbara Scotto, una scrittrice locale della quale nulla si sapeva per distrazione personale, e ci si lascia trascinare dentro la solerzia di affetti dei protagonisti che lei ha ideato e che non ne possono più di vedere la protagonista principale della storia scappare dalla resa ai sentimenti che chiude sotto chiave per paura di soffrire. Inizia così un diario di viaggio parallelo tra me lettrice e loro protagonisti, snodato proprio nel periodo natalizio e fino a capodanno, cioè nell'adesso di questo strano fine 2022. Ogni giorno leggo un capitolo, intuendo che si tratta di un capitolo fast e lieve da leggere per chi legge, slow e capovolgente da vivere per chi è protagonista del racconto. In parallelo alla storia e alla lettura, infatti, ogni step di vicenda appaia precetti motivazionali. Di cosa si tratta? Consigli? Forzature? Pungoli? Si tratta di cinque precetti laici che motivano a scartare il dono perfetto in un tempo perfetto, quello magico delle festività natalizie. Nel libro della Scotto non si parla infatti dei cinque precetti cristiani, ovvi per Natale e per chi è credente, né dei cinque precetti specifici del codice etico buddista. Ma si tratta di precetti emozionali che hanno un unico comun denominatore: motivare a riesplorare l'amore. E se accade che riescano nell'intento-strenna da parte di chi li testa come prove per valutare i possibili risultati finali, è perché fondamentalmente non si è manipolabili o suggestionabili, ma si è: pronti. La goccia fa traboccare il vaso, quando il vaso si piena. Ovvietà? Forse. La verità è che a un certo punto si è semplicemente di nuovo pronti, ancora una volta e sempre, ad amare dimenticando le più cocenti esperienze di naufragi emotivi che ci portiamo nel cuore. Solo che si ha bisogno della spinta giusta per prenderne coscienza e sbilanciarsi senza restare in stallo nel proprio pantano. Ma chi può riuscire a scuotere certi cuori induriti come quello della protagonista? Soltanto chi veramente ci tiene a consegnare a qualcuno un regalo perfetto, fatto thinkmade e con prezioso disinteresse, fatto solo per il più classico dei motivi, il semplice ma quanto valido "Ti voglio bene". L'unica frase da scrivere o da leggere sui biglietti dei pacchi regalo da e per amici e affetti. L'unica che vale. L'unica che serve. Buon "Ti voglio bene" a tutti. E grazie a Barbara Scotto per averlo ricordato ai lettori del suo "A Natale ti regalo l'amore."

Tìndara Rasi

giovedì 22 luglio 2021

TRA GRAVITAS E LEGGEREZZA, LA VITA IN CAMMINO

di Tìndara RASI

Leggendo “Ogni passo fa nascere una brezza. Rinascere sul cammino di San Francesco”, di Eric Minetto, edito da Lit Edizioni – Edizioni dei Camini, non si sta fermi nel proprio cantuccio, sulla propria comoda poltroncina: i piedi fremono, la mente viaggia. Dopo un intervento al piede, l’autore ha infatti deciso di attuare una sorta di gesto di ringraziamento per la guarigione avvenuta, completando per cammino immersivo, per cammino suppletivo, il tratto di strada che San Francesco, malato e morente, non riuscì a compiere negli ultimi momenti della sua vita. Minetto, guarito dal suo piede malato, non facendo nemmeno i conti con l’analisi delle sue stesse resistenze umane, concepisce e mette in atto questo ex-voto ambizioso: prestare follemente i suoi piedi a San Francesco per fare con lui/per lui/in vece sua il tratto di strada che da La Verna porta ad Assisi. Non si tratta di mezz’ora di cammino, ma di giorni interi al posto di. E in quell’interscambio non consecutivo ma partecipativo, trascina anche il lettore con una sorta di actuosa participatio missale. La sua impresa rimanda alla mistica della riparazione, quella dei cristiani che “riparano” ai patimenti di Cristo, che contribuiscono al corpo mistico patiens. Parte di un tutto più grande, dunque, anche questo usarsi a “prestito” umano per un Santo che lasciò qui il suo fisico in pegno, elevandosi lassù a etereità sacra. Minetto rende omaggio alla contemporaneità reale di Franciscus passus assisiensis, usando l’unica cosa che lo rende pro-alteritas, bene mediazionale infrapersonale: il suo stesso corpo, arti, pelle, occhi, piedi. Ma occupandosi di yoga e di scienze orientali, nel cammino intrapreso mette in campo anche strategie di mindfulness, di counseling, di teorie orientali, di spiritualità (nel senso più esteso che la mera religio), e di percezione corporea del sé, tutto nei giusti dosaggi. Il suo non è un libro cattolico cristiano in senso stretto, dunque. É un percorso: il piede va avanti a volte saldo, a volte vacillante, sulla concretezza del “terreno”, quello fisico, fatto di pietre sgranellate e di pulviscoli, ma anche quello della storicità umano-temporale e della gravità terrestre corporea. Poi però non rimane “a terra”: viaggia anche sulla “concretezza psichica” dell’oltre, del pensiero “filosofico”, dell’immanente mentale. L’autore non intende donare un libro cartaceo a un lettore, ma un bene infraumano, un riflesso di pensiero applicato, di allineamento cosmico oblativo. Il “battito universale” oltre la realtà sensibile, che diventa respiro pandemico. L’allaccio mentale, l’energia interpsichica tra chi è da una parte e scrive, e chi è dall’altra parte e legge. Per donare questo ad altri, scarnifica non solo se stesso. Scarnifica il proprio processo mentale che respira di fresco senza “proposizioni consecutive” e ridondanti, senza zaini pesanti sulle spalle e tra la lingua. Scarnifica la propria scrittura, che si slava sotto la pioggia, per lasciare intatta una sola lettera indicatrice del percorso, una Tau gialla. Non ci vogliono eccessi, gli suggerisce San Francesco, infatti. Basta un lenzuolo, per scrivere. Basta una lettera per indicare il percorso, per darci il “libro” che necessitiamo. E se si ascolta bene, è il vento che sfoglia le pagine, smuovendo le foglie degli alberi attorno: non ci serve altro. Cosa c’è in quella brezza, in quel respiro? C’è la creazione che geme, soffre ed è in travaglio (cfr Rm 8,22) perché non riesce a vivere il miracolo di “camminare sospesa sul vuoto” e nel contempo restare appoggiata sulla terra, “lieve, però, come se si camminasse sul cielo”. C’è la creazione che attende di unirsi in un unico afflato liberato da pesi inutili. E c’è quel vento spirituale, quella brezza leggera e naturale che arriva e sospinge lievemente, eleva, afferra, alleggerisce, permette il volo… Se siamo nella giusta corrente, ne veniamo sospinti senza neanche accorgercene e voliamo anche noi, leggeri tra i cirrocumuli.

San Francesco ci è riuscito: non è nella cerchia dei beati per un’onorificenza e un fastigio pinnacolare personale, ma per “montare di guardia alla bellezza del creato”. E da lì, il maestro santo prende dal Santo Maestro e consegna al pellegrino camminatore insegnamenti ruvidi ma efficaci, affinché li rimandi ad altri, in un sistema di diffusività fraterna della “semplicità”, parola a lui tanto cara. Aprendo la porta francescana del suo memento terreno, non si trova infatti nessuna pietra scintillante e preziosa, nessuna ricchezza materiale, ma il sasso nudo, il corpo nudo. Nel cammino, lo zaino troppo pesante storce la colonna vertebrale, gli scarponi scarnificano i piedi. Ci vuole lievità e slowness, in modo da riconoscere un ramo innocuo da un serpente pericoloso disteso in mezzo alla trazzera. Bisogna essere presenti a se stessi, non avere l’urgenza della meta finale, ma quella del percorso da godersi hic et nunc. Per San Francesco l’essenzialità era un bastone, un sandalo, un saio ruvido cucito e ricucito con la ginestra, uno con il cappuccio per ripararsi dalla luce eccessiva, visto che stava diventando cieco e aveva problemi agli occhi. Non bisogna “appesantirsi inutilmente durante un viaggio, quello della vita… ma imparare ad alleggerirsi, a farsi respiro”. Bisogna ricercare “la felicità a prescindere” buttando via le zavorre che non servono, dice l’autore. D’altronde “Francesco è in ogni passo che in piena coscienza decidiamo di non fare”, non in quello che decidiamo di fare o in tutto ciò che decidiamo di “trattenere”. Questo non significa che materialità, intenzione e volizione siano da demonizzare, ma che se scardiniamo schemi di filodossia comune, comprendiamo che tutto concorre al bene interiore e spirituale a volte anche in modo curiosamente apofatico. È in questa struttura di senso che alla fine lo scrittore in cammino, decide di non fissare nessuna bandierina sul suo Google Maps personale, raggiungendo mete fin troppo commerciali e inflazionate. Sa che siamo eterei e partecipativi di un’unica energia viva che eternizza i nostri passi, se smettiamo di pesare sulla polvere con una gràvitas che ci rallenta soltanto. La meta non è qui. O forse, la meta non esiste, esiste la vita ed è perenne. Esiste in quel lieve insufflare durante il krònos le particelle di ossigeno buono che ci consegna il polmone dell’universo. Ed esiste in quel gesto semplice e molto francescano di spandere a nostra volta, al respiro storico creaturale, al kàiros oltre l’archeo, il profumo di citronella dei nostri vasi personali (cfr San Paolo, 2Cor 2,15), eleganti e preziose sentinelle a guardia dell’aere sui balconi delle case.

Original by Tìndara RASI



venerdì 18 giugno 2021

 

SIAMO CITTADINI ATTIVI

di Tindara Rasi


Toc, toc… Una mano appare alla porta-spioncino, tramite la realtà aumentata stile NoApp. Bussa rispettosamente, come la regola del bon ton vuole, e chiede di entrare. Chi sarà? Un re delle favole con la corona? Un essere umano del mondo? Gli concediamo di entrare? Ma certo! Ha bussato, ha rispettato la prima regola del Mondo della Cortesia. Entra, manina, ti facciamo conoscere chi siamo e dove viviamo.

Ecco la nostra scuola. In essa, impariamo ogni giorno tantissime cose.

Per esempio, conosciamo le nostre emozioni. E i colori… anche i nostri… ricerchiamo nei pigmenti naturali il “carnicino” del nostro volto, conosciamo noi stessi che siamo le sfumature più belle del mondo. Conosciamo il nostro corpo umano, i sensi, il gusto, il cibo che consumiamo, lo zucchero e il sale, le energie che possediamo, quelle che spendiamo e quelle che doniamo.

E poi impariamo a stare in società. Il galateo sociale non è un cubo di Rubik: è la capacità di rispettare le regole del distanziamento con contatti che promuovono la salute umana e non la negligenza, con le mascherine e le visiere di protezione delle maestre, con lo studio giocoso e la conoscenza dei dispositivi anti-Covid per la sterilizzazione, la pulizia, l’ordine. Perchè stare bene “insieme” è più bello che stare insieme “slegati”, anche se è più faticoso. La metafora dell’astuccio personale: tanti colori ordinati messi dentro vicini e non alla rinfusa. O la metafora della fusaggine: striscia scura e spazio vitale distanziante, per creare l’armonia come i tasti del pianoforte, per creare musica e non rumore. Oppure la metafora di una margherita: tanti petali uniti, eleganti e felici, liberi ma adèsi. Con materiali propri della sfera tecnologica, osserviamo un fiore vero, un fiore di borragine viola; poi lo studiamo con video tramite cellulare; lo conserviamo in foto tramite QRcode; lo disegniamo con lo Spirograph. Cerchio uno, cerchio due… tre… quattro.. tanti… I am, You are, We are, The World is! Questo è l’insieme dei petali che siamo tutti noi! Questo è il bioma degli esseri umani sociali della nostra bolla. Il fiore lo ri-facciamo con polimateriali, con incastri, con la tecnica Wire Art, con Loose parts geometrici alla Kristen Meyer, con software grafici al computer. Creatività. Arte. Manipolazione. Tinkering a gogò. Processing. Coding. Problem solving...

Poi conosciamo la nostra identità nazionale attraverso personaggi e storie illustrate della nostra biblioteca. Una bella bandiera italiana, un personaggio italiano come Maria Montessori, le nostre feste nazionali e quelle personali, i gesti di ringraziamento e di dono per gli altri, i cappellini dei remigini e le pergamene, il carnevale, il Natale, il compleanno… leggiamo, e il cuore batte forte forte di emozione! A volte ne inventiamo qualcuna nostra, di storia, e dal concept iniziale, la concretizziamo anche in divertenti storyboard multipagine. Scriviamo la storia di noi-scuola con pittogrammi, coloriamo la nostra essenza su quadrottini Zentangle, pitturiamo i nostri ricordi e li fissiamo per l’eternità: ci piace così.

Ma il mondo non è fatto solo dagli esseri umani. Fuori e dentro l’aula c’è tanto da scoprire. Vogliamo conoscere il sole, la pioggia, gli alberi di platano, i frutti, il passaggio delle stagioni, le settimane del tempo e quelle dei cerchi ciclici di un albero… Troppe cose! Iniziamo da una. Ci dà lo spunto la cova di una colomba fuori dalla finestra: uova, colombini affamati nel nido, adulti che spiccano il volo verso i cornicioni della scuola. Ma il senso del nostro maturare ci arriva anche dalla semina nell’orto montessoriano in classeed è già primavera, è già estate. Nella natura c’è la stessa armonia regolativa: la fillotassi ce lo dimostra, la sequenza matematica, la spirale di Fibonacci, una mattinata in cerchio seguendo il metodo Kett, le lettere che compongono il nostro nome… tutto lascia una traccia di bellezza nel mondo e noi dobbiamo fare altrettanto, rispettando l’ambiente che ci circonda.

Per questo, dobbiamo volgere lo sguardo anche al nostro passato e conoscerlo come avventurosi archeologi che cercano reperti preziosissimi da consegnare al museo di Beni Culturali. Indiana Jones alla riscossa! E per questo dobbiamo volgere lo sguardo al futuro, fatto di STEM e tecnologie informatiche, usando bene ciò che il Digital Affordance ci propone. Non siamo automata, possiamo costruirli gli automata, e anche giocarci per divertimento in classe. Ma restiamo esseri umani del mondo, pronti ad attraversare i canali di una Marble Machine come biglie colorate, senza lasciarci intrappolare da mode effimere, imparando i fondamenti della Media Literacy buona e funzionale, illuminando il circuito virtuoso dell’umanità responsabile di oggi e di domani…. La nostra luce interiore, i nostri piccoli semi di bontà e di civiltà universale, li vedete già.

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Bussano alla porta dei vostri PC e dei vostri cellulari, questi piccoli alunni. Sono fieri e meravigliosi cittadini del mondo. Rispettano le regole. Contribuiscono alla pace, sparpagliando gentilezza. Fateli entrare Statene certi, non ve ne pentirete!


Original by

Tìndara Rasi